Maestro, facili Cassandre evocano da sempre la morte del Teatro… come immagina il futuro del Teatro? 

Grazie per il ‘Maestro’, che purtroppo non sono.
Penso che il teatro, come tutte le altre arti, sia come un organismo vivente, e che obbedisca quindi alle leggi delle cose ‘vive’, che mutano continuamente, che si adattano, crescono, si nascondono, riappaiono in altre forme, mutano con le stagioni, ecc. Credo che quando un arte – che sembrava codificata una volta per tutte, uguale a se stessa per decenni – improvvisamente cambia per adattarsi al mutamento dell’umanità e della storia, tutti credono che sia ‘morta’. Semplicemente perché continuano a cercarla là dove erano abituati a trovarla, e lei non c’è più. Si è spostata, o si sta spostando. Ci sarebbe da divertirsi ad elencare tutti i periodi in cui si è annunciata la morte del teatro. Lo si fa da sempre. Almeno fin dai tempi di Aristofane, quando in una commedia manda il suo protagonista tra i morti, per resuscitare un grande tragico della generazione precedente, visto che il ‘nuovo’ teatro era morto. Le cronache teatrali della Russia dei tempi di Cechov e Stanislavskij ( e di li a poco dei Vachtangov e Mejerchold ) parlano di ‘morte del teatro’!
Chi oggi ne parla, è probabile che lo faccia perché non sa vedere oltre le uniche due ( noiosissime , per altro ) forme di teatro che hanno operato in Italia dal dopoguerra ad oggi : il teatro capocomicale, e quello dei Registi, finalmente arrivati, ed era ora, al capolinea insieme ai loro Malvolii in giarrettiere sgargianti, maggiordomi innamorati : i critici della regia. L’ Italia , per esempio, non ha mai avuto una storia importante di teatro d’ensemble, basato sulla centralità degli attori, e che facesse dello studio della recitazione il perno di tutta la creazione. Da qualche tempo per fortuna arrivano anche da noi spettacoli dall’estero che indicano con forza un modo di fare spettacolo che surclassa la tradizione italiana, e indica una via di rinnovamento . Ci sono anche da noi molti gruppi giovani o abbastanza giovani che si sono liberati dal concetto di capocomicato o di regia, e praticano un teatro d’ensemble. Se questi sapranno conquistarsi la fiducia del pubblico, e se sapranno dare alla loro ricerca dei risultati ‘popolari’, fruibili da grandi platee di non addetti ai lavori, se faranno spettacoli emozionanti, capaci di far ridere e piangere, beh, quello sarà il teatro del futuro. Anche se va detto che il teatro del futuro non bisognerebbe perder tempo ad immaginarlo, o a progettarlo. Arriverà da sé.

Molto più difficile è, invece, percepire un arte nel suo presente. Nella sua vita in atto. La vita, quando c’è, non è meglio né peggio di un prima o di un dopo . Ma non è sempre facile trovare le tracce del suo manifestarsi dentro la società, le anime, le città. Quando si cerca di prevedere dove andrà, si sbaglia sempre. Al contrario, saperla vedere dov’è adesso, nel nostro oggi senza epoca e senza storia, richiede uno sguardo critico molto puro, sensitivo. Ma non è compito mio, per fortuna. Sono troppo impegnato a farlo, il teatro, per poter anche immaginare dov’è, come sta, dentro a quale immaginario sta raccontando il nostro ‘oggi’. Il Teatro, come credo anche le altre arti, è l’eco di una voce dell’umanità, una voce segreta e insistente che parla dell’intimo percepirsi –vivi,adesso – sulla terra. Bisogna occuparsi di ascoltare quella voce, e non occuparsi di teatro, per fare il Teatro. Secondo me.

Detto ciò, io concludo dicendo che nel nostro Paese non è morto il teatro ( il quale se ne sta nascosto da qualche parte, vivo e vegeto, e pronto a rifiorire alla prima occasione ) ma si sono estirpate le sue radici dalla società. Si è fatto un gran lavoro distruttivo per spegnere ogni vitalità nel pubblico, oltre che la creatività nei teatranti. Perché? Non lo so. Il mio lavoro con la Popular in questi anni è appunto quello di gettare un nuovo seme, di prendermi cura di qualcosa che potrebbe e dovrebbe rinascere da un momento all’altro. E non è solo il Teatro. E’ la vitalità del pubblico, insieme alla creatività degli attori.


2) Qual è, a Suo avviso, il male principale del Teatro italiano contemporaneo?

Molto semplicemente le dico: l’ingerenza sempre più massiccia della politica  Il teatro italiano è stato totalmente levato dalle mani degli artisti. A gestire tutto ci sono in genere mediocrissimi impiegati di nomina politica. Questa ingerenza negli anni si è fatta sempre più diffusa, capillare : dal grande Teatro di produzione, alle piccole sale di provincia. Il risultato è che non ci sono le persone giuste , quasi da nessuna parte. Vorrei sottolineare ‘quasi’, perché qualcuna, ogni tanto , la si incontra . Ma si tratta solo di una piccola trascurabile eccezione.  Questa ingerenza dei partiti politici ha anche , via via, trasformato il bellissimo mestiere di direttore di teatro in un mestiere noioso e frustrante. Grigio. Come la politica, appunto, che sembra ormai attrarre solo persone orgogliose della propria mediocrità culturale. Il male è che gli artisti non riescono a dialogare direttamente col pubblico. Non hanno rapporto diretto, perché in mezzo ci sono queste figure prive di qualsiasi ‘visione’, di talento, di passione. Spesso, tra l’altro, inamovibili dai loro incarichi per decenni. Ovviamente, ripeto, ci sono delle eccezioni : per esempio alcuni miei amici e amiche sono dei veri direttori artistici e dei veri direttori generali, dotati di ingegno, competenza, coraggio e passione. Ma sono pochi, e -seppure abbiano un buon successo col loro pubblico – non hanno vita facile, e il loro successo purtroppo non cambia il quadro generale. Vorrei dire anche a chi crede che la cura per il teatro italiano consista solo in un ritorno delle generose sovvenzioni statali, che si sbaglia. Un vero artista, un vero direttore possono fare miracoli anche con risorse molto limitate. Quelli finti , no. La cura è una sola : mettere gli artisti in condizione di incontrare il pubblico, e sottrarre le nomine dei direttori ai partiti politici. A quel punto si potrà parlare ( molto volentieri ) di generose sovvenzioni statali.

    
3) Cos’ è per Lei il Teatro? Ci dia una Sua personalissima definizione

Ho iniziato da molto piccolo, avevo quattro anni. Facevo un vecchietto, e ricordo che stavo su una seggiola, e bevevo per finta da un bicchiere vuoto. Nella mia intima idea di teatro c’è ancora adesso qualcosa di infantile. Ancora oggi l’atto di mettersi una barba finta o il gesto di bere o mangiare per finta è stranamente molto presente nei miei spettacoli. Quella recita infantile sta continuando, insomma, attraverso tutti questi anni. E allora forse il teatro che faccio mi libera dal peso della coscienza matura, per proiettarmi in un mondo dominato da sensazioni infantili. Anche la paura di vivere, se ne va. Nella vita di tutti i giorni, io sento molto il peso della paura. La serietà della vita mi terrorizza. Non posso pensarla , né viverla, senza una strana, persistente paura , che riguarda un po’ tutto. Come un bambino che si sveglia nel cuore della notte. Il Teatro è l’unico momento della vita in cui la vita non fa paura. La posso pensare, raccontare , e perfino rivivere, sentendomi forte e al sicuro. Questa sensazione di libertà fa sbocciare dei fiori nel mio immaginario, e mi sento felice di essere un uomo tra gli uomini, commosso e perfino divertito dal nostro destino comune. Il teatro è dunque un luogo dove gli uomini vanno (attori e spettatori in egual misura) per essere infantili, liberi dalla paura di vivere, e commossi dell’essere uomini. È anche il luogo dove ci si riposa dall’idea di essere soli al mondo. Il teatro ti dice che la vita altrui è la tua. Che siamo un’unica persona. Il bambino di quattro anni e il suo vecchietto ( che tra breve forse sarò davvero ) siedono sulla stessa seggiola. Non importa se in palcoscenico o in platea.   Siva a teatro ( e si fa teatro ) per un solo motivo : quello di sentirsi liberi di ridere e piangere tutti insieme, di partecipare alla vita tutti insieme, e di trovarla , perfino, bella.


4) Quale consiglio darebbe ad un giovane attore o attrice?

Bene, la chiameremo Elvira, per citare un illustre esempio.

Cara Elvira, solo di questo devi occuparti:

sviluppa al massimo la tua creatività. Lavoraci notte e giorno, da sola, incessantemente. Lavora per essere speciale. Sii esigente , capricciosa, ipersensibile, rompiscatole e instancabile. Non perder tempo coi colleghi a far vita bohemien. Educa te stessa a mettere le tue necessità artistiche al di sopra dei tuoi doveri verso gli altri. Non starli a sentire quando diranno che sei isterica : è un dono. Ti aspetta un compito enorme : quello di renderti necessaria al Teatro, molto più di quanto non lo sia il Teatro per te. Preparati bene. Impara a scegliere i tuoi veri maestri. Gli altri, ignorali. Crea la ‘tua’ recitazione come un tutt’uno con la ‘tua’ visione del mondo. La tua recitazione sia sempre la testimonianza della vita che hai vissuto, e che è ancora dentro di te.   Non posso darti nessun consiglio di carriera, perché dovrai totalmente inventarti la tua. Devi essere qualcosa che prima non c’era, e che ora c’è. Ed è ciò che crei tu. Solo tu. Niente è sbagliato, se per te è vero e necessario. Chi ti dice il contrario è un tuo nemico, e ascoltarlo non ti serve.


5) Cosa desidera resti in chi esce da un Suo spettacolo?

Un po’ di piacevole sovreccitazione. Un senso disordinato e divertito di simpatia per la vita e per il gioco (e per gli attori).


6) Qual è stato l’incontro che ha segnato maggiormente la Sua carriera?

Carlo Cecchi e Amleto sono stati il mio ‘punto di non ritorno’. Fare un vero incontro significa questo; attraversare il punto di non ritorno. Mi è successo di nuovo, anni dopo, incontrando e frequentando Geraldine Baron. I suoi insegnamenti e la sua guida mi mancano moltissimo. Ora che ci penso ha dato una svolta alla mia carriera anche Ivo Chiesa, che ha creduto per primo in me come regista, senza che io nemmeno avessi mai pensato di volerlo fare.

E adesso mia moglie Veronica, che attualmente produce i miei spettacoli, e mi guida insegnandomi la difficile arte di tenere insieme tutto: amore, battaglia, studio, doveri, fantasia, soldi, salute, fatica, successo, vita, morte, risate, miracoli, lacrime, debutti, bambini, ambizione, sconfitta, sogni, ieri, domani.


7) Qual è il Suo sogno teatrale nel cassetto?

Ne ho più d’uno:

Di girare un film che parli di teatro e di attori.

Di avere un teatro per me e per la Popular Shakespeare Kompany, che sia il nostro studio permanente, capace di fare spettacoli per bambini e adulti, e che ci dia agio di produrre senza le attuali sconcertanti difficoltà economiche.

Di avere un po’ di tempo per rimettermi a studiare, per riordinare le idee, così da riuscire a sognare – magari – il mio sogno teatrale nel cassetto.

Di andare a studiare con un grande maestro, per un po’.

Di incontrare Charlie Chaplin nell’aldilà, per ringraziarlo.

8) Se non avesse fatto Teatro, cosa avrebbe voluto fare nella vita?

Non ci ho mai pensato. Mi pare di non aver mai voluto fare altro, fin da molto piccolo. Perché, non so. Non si andava a teatro nella mia famiglia, e il mondo degli attori mi era totalmente estraneo, lontanissimo. Eppure … Credo che si chiami ‘vocazione’, anche se la parola ci riporta a qualcosa di mistico. In fondo, non ho mai potuto veramente scegliere : sapevo che avrei fatto questo, e l’ho fatto.
Tuttavia, nei momenti di sconforto, quando penso con invidia alle ‘vite altrui’, mi piace immaginare che avrei voluto essere uno psicologo. Altre volte un marinaio. Ma forse il mestiere più bello di tutti è il fotografo.


9) Attraversiamo un momento di profondissima crisi sociale prima ancora che politica ed economica… quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?

È una crisi di coraggio. Di idee. Di vitalità. Di educazione. Di fiducia nell’intelligenza. A fronte di deficit come questi, chi se ne frega dei soldi? Mi sembrano il problema minore. La crisi è non sapersi mai migliorare. C’è un’epidemia di tristezza e di cattiveria, in giro, che dilaga grazie al propagarsi dell’imbecillità più greve, che sembra ormai dominare tutto: dalle televisioni ai partiti, dai comportamenti di massa ai nuovi modelli ‘culturali’. Sembra quasi che le persone migliori si siano ritirate, che si occupino d’altro, che abbiano rinunciato a prendersi la responsabilità della loro intelligenza, della loro sensibilità. Dietro ogni crisi sociale c’è un deficit di cultura e di sensibilità. Io non ho alcun titolo per parlare di queste cose, ma se mi si chiede una possibile soluzione, mi pare di non aver dubbi: se ci si occupa dei bambini e dei ragazzi, se si riparte dalla scuola e dall’educazione, se quei pochi denari rimasti si investissero tutti lì, tempo vent’anni e avremo un mondo migliore. La nostra generazione di imbecilli cronici dovrebbe riuscire a creare degli anticorpi (la scuola, l’educazione alla cultura e al senso civico) capaci di debellare se stessa in pochi anni.

Fonte: http://www.nuoveproduzioni.it/valerio-binasco-teatro.htm