Non si possono scrivere note di regia su Romeo e Giulietta. Nessun regista, nessun attore può sapere ‘prima’ dove e come andrà a finire il suo viaggio shakespeariano. Se devo dire quel che penso, penso che ogni ‘viaggio’ shakespeariano nei normali teatri italiani è sempre e comunque un naufragio. Per portare un testo di Shake- speare al suo naturale approdo in un teatro normale, delimitato dalla moderazione muraria, e dinnanzi a un pubblico odierno ‘moderato’ da muri casalinghi, si devono lasciar cadere lungo il percorso molte delle sue qualità, tutte orientate al troppo: o la troppa poesia, o la troppa retorica, i troppi luoghi dell’azione, la troppa libertà formale, o i troppi personaggi, eccetera.
È quasi tutto troppo con Shakespeare. I registi, appena possono, appena trovano un produttore abbastanza appassionato e ingenuo da dir loro di sì, rifuggono dai teatri convenzionali e portano Shakespeare tra le rovine, nei capannoni abbandonati, nei teatri sventrati.
Se devo continuare a dire quel che penso: fanno bene. Secondo me non esiste un altro modo di fare Shakespeare se non quello di Peter Brook alla Bouffe du Nord, e di Carlo Cecchi al Teatro Garibaldi di Palermo.
Siamo anche noi, da un bel pezzo, sul Viale del Tramonto, e quindi non darà fastidio a nessuno se faccio un piccolo abuso delle parole di Norma Desmond: “Non è Shakespeare che è troppo grande, siamo noi che siamo diventati troppo piccoli”.
Comunque: mi stavo barcamenando abbastanza bene con il teatro contemporaneo. Più di metà della mia vita era trascorsa e tiravo avanti, sempre avanti, almeno mi sembrava, col mio mestiere, senza mai incontrare – da regista – quei famosi ‘troppi’ di cui sopra. (L’attore che sono è un’altra cosa, ha fatto Shakespeare molte volte: l’attore avrebbe altro da dire, ma gli attori, per defini- zione, non scrivono le note di regia).
Poi è arrivata la Grande Crisi che ha fatto a pezzi il Teatro: ed è partito questo gioco darwiniano del ‘si salvi chi può’. In realtà i teatranti sono un po’ più vili, e dicono ‘Ci salvi chi può’. E sono corsi a fare Shakespeare. Se ci fate caso: i cartelloni degli ultimi anni sono pieni di Shake- speare. Quanti Amleti giravano l’anno scorso? Erano dappertutto. Quanti Otelli? Quasi tutti hanno prodotto un titolo importante, da Tempesta a Sogno, Molto rumore per nulla, Re Lear, e molti altri. Perché? Ve lo dico io. Non perché ci si guadagna (basta vedere quanti attori servono, anche se ormai sono pagati tutti il giusto, cioè quasi niente), non perché si è sicuri di riempire le sale (e chi lo sa come si fa, a riempire le sale in modo onesto?), ma per ritrovare un senso, umano e storico, fosse anche testamentario, alla civiltà del teatro. Harold Bloom ci aveva azzeccato: al centro del Canone Occidentale c’è Shakespeare. Se serviva una prova, eccola qua. Vale an- che per gli italiani. Fateci caso: la Grande Crisi ha fatto quasi sparire Pirandello, chi l’avrebbe detto?
Non potevo dunque esimermi, pauroso come sono, da questa prova del coraggio. Se devo insistere a dire quel che penso: sono stato troppo coraggioso a scegliere Romeo e Giulietta. Ha un troppo in più: è troppo di tutti. È un’opera così famosa che è impossibile sfuggire al già visto. In più mi accorgo che di Giulietta e Romeo mi piacciono soprattutto cose che potrei anche definire marginali: i personaggi secon- dari, il tono da commedia, il provincialismo italiano (di cui Shakespeare non sapeva nulla, certo, ma come non pensarci quando vedo quei poveri giovinastri Capuleti e Montecchi che si aggirano per Verona, nella nebbia, nel ‘niente da fare’ delle province del nord, determinati in modo quasi scientifico a diventare gretti e imbecilli come i loro genitori, antesignani illustri dei poveri baldi padani odierni… ? ). Insomma la cosa che più mi attira in Romeo e Giulietta è la crudeltà, spesso involontaria ma ancor più spesso consapevole, che nasce dall’imbecillità umana.
Io credo che chiunque si identifichi con un Clan, una famiglia, una razza, una tifoseria, sia un imbecille. Gli imbecilli sono anche violenti, e viceversa. È una storia di imbecilli violenti, questa di Giulietta e Romeo.
A parte i due protagonisti, in qualche modo ‘salvati’ dall’innamoramento, e dall’innamoramento convertiti al pacifismo, tutti gli altri si muovono minacciosi e vit- toriosi verso il domani dell’umanità. Che è il nostro oggi, ahimè. Abbiamo visto tutti che bella carriera hanno fatto e stanno facendo nella Storia gli imbecilli violenti, e quale pessima gli innamorati pacifisti.Se la morte dei due innamorati doveva servire a placare gli animi, allora ci troviamo dinnanzi a due capri espia- tori. All’epoca di Shakespeare è probabile che lo shock morale della morte di due innocenti fosse sufficiente a fermare un’escalation di stragi. Oggi non funziona più. I capri ammazzati son capri morti e basta, di espiatorio non si vede nulla. Non so che ha da dire a proposito di oggi Renèe Girard, ma ai tempi di Shakespeare la sua teoria funzionava abbastanza, e i genitori di Romeo e Giulietta rinunciano al loro odio. Ma questo non li guarisce dalla loro imbecillità e alla loro vocazione al kitsh, perché subito si impegnano a imbrattare la città con delle orribili statue d’oro dei loro figli. Questa storia delle statue d’oro mi intenerisce molto: la sento davve- ro appiccicosa e squallida come le ostentazioni italiane provincialoidi, tutte pregne di laido decoro. Tuttavia mi intenerisce: che posso farci? Occorre ricordare che chi scrive arriva da un mondo non dissimile? Che conosco per filo e per segno lo squallore e la poesia delle notti di pianura? E che – al pari del fotografo Martin Parr – il più crudo provincialismo mi attira come una perdizione? Qualcuno che vuol bene al mio lavoro, mi ha detto con tono entusiasta che in qualche modo io continuo a pro- vare a fare Checov, magari anche Maupassant, nei miei spettacoli. Sono d’accordo con lui. A onor del vero qual- cosa di simile me l’ha detta, con tono del tutto privo di entusiasmo, anche qualcuno che non vuole bene al mio lavoro. Sono d’accordo anche con lui.
Vedremo che succederà. Con Shakespeare non si può prevedere nulla. Intanto mi sono procurato degli attori e dei collaboratori fantastici.
Valerio Binasco