Lascio solo queste due foto, anche se sembrano molto tradizionali e antiche. le altre foto non mi parlano più. mi infastidisce la troppa modernità delle nostre facce. fu il mio primo tentativo di fare qualcosa di diverso dalla drammaturgia contemporanea. naturalmente lo affrontai come fosse un autore contemporaneo, e credo che il primo sbaglio fosse proprio quello. se è vero che spesso si cerca Cechov in Pinter (per fare un esempio) non credo che sia buona cosa cercare Pinter in Cechov. Ma io feci così lo stesso. Mi convinse a fare Gabbiano il mio produttore Roberto Toni, uomo coraggioso, sensibile e istintivo, al quale debbo molti incontri che poi hanno segnato la mia vita di regista, come Pinter e la Ginsburg.
Cercavo una poetica povera, una recitazione contemporanea e realistica, e dei temi sentimentali, capaci di commuovere il pubblico con le spietate malinconie che mi affliggevano in quegli anni. erano anni ancor giovani, e mi importava poco di rassicurare il pubblico su quel che stavo facendo. ne risultò uno spettacolo pieno ‘di tutto’ , con intuizioni forse interessanti, ma non era facile capire che spettacolo fosse. non era facile seguire un filo narrativo o stilistico che fosse rassicurante. mi avventuravo – con un bisogno di sincerità estrema- da tutte le parti, come un cercatore che si è dimenticato cosa cerca. dal neorealismo alla parodia a Kaurismaki, con in mezzo musiche dei Beatles. tuttavia il Gabbiano è uno spettacolo che ho amato molto, e che contiene – in nuce- tutto il mio futuro artistico. Piacque molto, almeno così mi sembrava, ai colleghi teatranti, che affollavano la piccola sala del teatro India, e poi si fermavano a discutere, dopo, anche fino a tardi. Io mi sentivo giovane e immortale, e tutte quelle discussioni mi entusiasmavano. i critici si scatenarono, unanimi nel farmi a pezzi. ma io ero ancora in una fase superficiale della mia vita. mi lasciavo volentieri distrarre da tutto quel fermento polemico, e gongolavo perché mi faceva essere al centro dell’attenzione, come uno che fa delle monellerie intollerabili ai genitori e ai precettori. oggi so che in quello spettacolo mancava qualcosa. mancava qualcosa che ero convinto di avere. anzi : ero convinto che il mio spettacolo fosse proprio quella cosa. ora so che non era così. e so una cosa in più. quello spettacolo è rimasto fondamentale per me proprio a causa di quella ‘cosa’ che mancava. perché è esattamente la ‘cosa‘ che poi ho cercato sempre, dopo. è ciò di cui parlano sempre i miei spettacoli. la ricerca di quella ‘cosa‘ mancante , la metto in primo piano sempre, da quello spettacolo in poi. se chiudo gli occhi so perfettamente cos’è. se li riapro , svanisce. questa sarebbe una buona chiusura per questo scritto. ma credo che ci voglia coraggio, e allora provo a dire – anche ad occhi aperti – quel che credo sia. credo che si tratti di amore per l’umanità (un amore di molto superiore a quello per il teatro). All’epoca di Gabbiano ero pieno di quell’amore, ma – offuscato da una certa infatuazione per me stesso e per le mie idee – davo per scontato che tutti provassero il mio stesso amore, nel mio stesso modo. ero certo che in fondo bastava mostrare un attimo qualunque di una qualunque vita, per fare poesia e dare emozione. trascuravo un passaggio. quello dell’attraversamento. la vita accade in scena se gli attori sono attraversati dalla vita. ‘mostrare’ è troppo poco. non bastano le idee. Non basta la vitalità. Non è questione di cultura. Dovevo attraversare qualcosa. E porgere al pubblico i segni di quell’attraversamento. non era ancora arrivato l’insegnamento di Geraldine Baron nella mia vita.