Arturo caro
Da un po’ di tempo cerco di scriverti le famose ‘note’ su Porcile, ma non riesco ad avere delle visioni coerenti o accettabili dell’opera. Mi mancano coraggio e libidine, per ora.
Faccio una gran fatica a togliermi di dosso la pesantezza. Decido però di approfittare dell’occasione di doverti scrivere, per mettere alla prova me stesso, e per verificare se davvero non c’è speranza di accendere un po’ di luce dentro di me. Una luce che rimetta in movimento la fantasia, e il piacere di raccontare.
Parto dunque da questa ultima parola ‘raccontare’. Porcile sembra un testo scritto per denunciare, per irridere, per scandalizzare, per intimidire… Ma non mi pare che PPP avesse (almeno per quel che concerne il suo teatro) una gran voglia di raccontare una ‘storia’. Credo la considerasse una roba vecchia, un fastidioso fardello di epoche passate, qualcosa di borghese. Credo inoltre che egli considerasse il teatro come un mezzo espressivo inautentico, sovraccarico di cultura, rivolto solo a borghesi superficiali o a intellettuali annoiati e noiosi. Che non parlasse più di vita ma solo di cultura. Forse , in quegli anni, era davvero così. Fatto sta che a un certo punto si mette a scrivere commedie con la pretesa di rivolgersi agli ‘operai’, a suo dire ignari di ogni culturalismo, e pronti – proprio perché vergini – a percepire ogni parola di un ‘nuovo’ linguaggio poetico . In realtà accadde che gli ‘operai’ se ne infischiarono del suo teatro ( allora come oggi ), e la sua creazione poetica finì per trovare un venerato ascolto proprio presso gli intellettuali e i teatranti più appesantiti di culturalismo. Il povero PPP finì con l’inventare, a parer mio, un nuovo birignao.
Così come il suo cinema è libero e leggero, il suo teatro è pesante e incatenato ai cliche culturali o anti-culturali, quando non addirittura alternativo-culturali. Da questo punto di vista Porcile non è più una storia da raccontare, ma è un contenitore di simboli, di prediche, di atteggiamenti , di proposte formali,… i suoi personaggi non sono più persone, ma prototipi buoni per la satira, o per ostensioni sacrificali (simboli, dunque).
Il tragico, qui, è materia per un rito, il comico è materia di parodia. Tutto è misteriosamente privo di vita (se si intende, come faccio io, : vita = accadimento di qualcosa) Tutto è materiale simbolico, filosofico, ironico e liturgico. Quindi esiste solo dalla bocca in su, nella testa. Ecco perché PPP, a teatro, è stato fino ad oggi materia prediletta di critici o di registi di ispirazione ironico-critica.
Pur ammettendo che quanto ho detto finora forse è sensato solo per me, e che magari non corrisponde alla realtà pasoliniana, la quale mi sfugge a causa della mia ignoranza (nulla di più facile), la domanda che comunque mi risuona in capo è: Che ci faccio io qui?
Visto che non ne condivido i presupposti culturali, e non sono neppure all’altezza di raccogliere una provocazione formale di questo livello?
Cosa c’è in questa operazione che mi tiene legato al volerci provare?
Quest’ultima è una domanda molto semplice, grazie a Dio. Vediamo se uscirà una semplice risposta.
Non è facile raccogliermi a pensare, stanotte, perché per combinazione è il 25 aprile, e qui nei vicoli di Genova dei ragazzotti ubriachi cantano bella ciao, con voci atteggiate ai cori da stadio, e sbagliano pure le parole. È l’inno della loro miserabile ubriachezza, dove le parole ‘Invasor’ e ‘Partigiano’ hanno un suono così stupido e desolato , che vien voglia di consolarle.
Dicevamo : cosa mi tiene legato a questo progetto?
Ci sono due verità: la prima è che in Porcile intravedo, sotto una montagna di culturalismo il cui peso è aggravato anche dalla monumentalità della figura di Pasolini, intravedo un storia. Una storia da raccontare. E non posso fare a meno di pensare che se la racconto con semplicità e ‘umanità’, cercando di renderla chiara e semplice, e cercando di dare ai personaggi un po’ di credibilità, un po’ di affetto, un po’ di pietà … bè, credo sinceramente che non rubo nulla di sostanziale a Pasolini. Anche se gli tolgo un po’ di pasolinismo, vale a dire anche se attenuo l’evidenza di quelli che forse lui considerava i suoi colpi di genio : tutti formali e concettuali. Quindi resto attaccato a Porcile non perché vedo in esso il manifesto di una qualche contro-cultura, ma semplicemente una storia. La storia di una famiglia. Una famiglia molto complessa, nella quale c’è un figlio unico molto complesso. Che fa una fine tragica. Ma non emblematica. Così come nessuno dei personaggi è emblematico. I genitori a PPP fanno schifo perchè sono ex nazisti. A me fanno pena, perché sono dei genitori di un figlio complicato che farà una fine tragica. La loro ‘borghesia’ a PPP fa ridere, e li paragona a dei maiali stile Grosz. A me fanno tenerezza. E Grosz , con la sua parodia sociale non mi rivela nulla di originale. Inoltre, ti confesso, a me anche i maiali mi fanno tenerezza.
Sto per arrivare a dirti qualcosa di molto azzardato, e cioè che perfino gli ex nazisti, in questa commedia, mi fanno pena. Certo, è l’ignoranza a parlare in me, la mancanza di immaginazione, anche, cui si aggiunge la sazietà della mia condizione sociale. Ma tant’è, è così.
Quindi sento un bisogno di raccontare questa storia restituendole un po’ di tenerezza umana, vorrei provare a salvarla dai toni troppo saccenti di chi ( ben protetto dall’ombra possente di Pasolini ) sa a priori dov’è il bene e dov’è il male, chi sono i buoni e chi i cattivi. Quali sono le parole intelligenti e quelle stupide.
Questa era la prima verità.
La seconda è più intima, e più frivola. E’ che mi sento come impegnato in una piccola battaglia personale contro il complesso di inferiorità che la figura di Pasolini mi induce. Da una parte mi vien voglia di fuggire a gambe levate, per non correre il rischio di un confronto, e per non andare a sbattere contro una intelligenza smisurata, dotata di una grazia di cui non posso nemmeno raccogliere le briciole, che non potrà – per la vicinanza storica tra noi e lui – che smentirmi a voce altissima. Dall’altra ho il desiderio infantile di mostrare il mio coraggio, e di raccontare una MIA storia , dentro a una storia di Pasolini . Ho voglia di trattarlo alla pari. Succeda quel che deve succedere. Ovviamente tutto questo coraggio in me non c’è. Devo cercarlo. Voglio provare a non avere timore riverenziale nei confronti di questo autore che raduna in sé vari simboli, e che riesce – a livello simbolico – a farmi sentire in colpa per la sola ragione di voler provare a dargli una forma in teatro. Dato che è diventato un ‘intoccabile, mi viene una irresistibile voglia di toccarlo. Eccoci dunque dinnanzi a una verità che è anche molto infantile.
Veniamo a noi, e alle nostre musiche: Gli elementi che ci devono guidare sono : solitudine, dolcezza, provincialismo, dopoguerra, spiritualità, bisogno di amore, silenzio, dialogo interno.
Ida è come Ofelia. Lei crede a Julian, e la sua vita è travolta. Lei è il personaggio che soffre di più.
Soffre per amore. È un amore impossibile, lo sa, ma ci sono tante donne (e uomini) che amano amori impossibili, perché hanno in dote un sovrappiù di speranza. Dio li ha riempiti di troppa speranza, per propagarla nel mondo, e per farli soffrire di una sofferenza altissima, spirituale. Dio li ha dotati di un eccesso di speranza perché la speranza è una dolce preghiera. È una preghiera allegra. Dio ha bisogno anche di preghiere allegre. Di lacrime allegre. Di dolore allegro. Ida non è consapevole della sua missione presso Dio. Non sa nulla della sua allegria. E’ convinta che sia Julian , ad essere allegro! Ida è la vittima di questa storia. I maiali divorano anche lei. Ida dovrà essere recitata con infantile allegria, e con infantile disperazione. È piena di energia positiva. La sua ‘musica’ quindi dev essere molto triste, per contrasto. La tua musica sarà la SUA verità, che ella non vuole e non sa conoscere.
E’ di lei che devono parlare tutte. le nostre musiche. Questo sarà il nostro segreto. Faremo Porcile come se fosse la storia di Ida. Come se i sentimenti che davvero contano fossero i suoi. È un’impresa sconsiderata, se pensiamo che c’è solo in qualche scena , all’inizio, e poi se ne va, ma io la penso così lo stesso. Ida apre il varco alla possibilità che ci siano dei sentimenti in questa storia, e che quindi anche i genitori ne abbiano. In questo caso il personaggio della madre, che nell’opera è reticente e superficiale, potrebbe rivelare maggiore forza narrativa. Fatta di sola presenza. Di solo sguardo. Del suo sguardo sul figlio. La sua è una musica drammatica. Piena di dolorosa suspance.
Parliamo ora (sempre stando dal punto di vista di Ida) della suspance. Per tutta la piece non si fa altro che chiedersi : qual è il segreto di Julian ? cosa fa quando è solo? chi ama? ogni scena deve nutrirsi di questa suspance, e a sua volta nutrirla. Il segreto di Julian non è un segreto orribile. Non fa male a nessuno. È un segreto inconfessabile, ma riguarda l’amore.
Su questo punto Pasolini, secondo me, fa un po’ di confusione. Ci fa apparire questa voglia di andare con i maiali come un amore, poi come una malattia, poi come una rivolta, poi come un abiezione, poi come una condanna , poi come suicidio in rifiuto del padre. Troppa roba. Io credo, sempre adottando la tragica semplicità dello sguardo di Ida, che Julian amasse fare quel che faceva. Tutto qua:
Julian aveva un grande amore.
Che non era per lei. Ma per i maiali.
Succede.
È preghiera anche questa.
Secondo me.
Parliamo di struttura. Sono dieci scene. Alcune velocissime. Ma sempre in tempi diversi. Quindi lo stacco tra una scena e l’altra è come dire: Tempo Dopo. Ma per poter dire Tempo Dopo occorre aver ben saldo in mano il filo narrativo. Il filo è questo : c’era un ragazzo che aveva un segreto. Tutti volevano saperlo, perché sembrava che niente lo avrebbe mai fatto felice, se non si fosse liberato di quel segreto. La sua fidanzatina si struggeva per lui. I suoi genitori, in modo diverso ma ugualmente sincero, si struggevano per lui. La fidanzatina voleva davvero sapere il suo segreto, e sarebbe morta per la sua felicità. I genitori – come tutti i genitori- non erano sicuri di volerlo sapere, perché – come tutti i genitori – temevano di saperlo già. Non sarebbero morti volentieri per la sua felicità , non perché fossero cattivi, ma perché nella vita ne avevano viste così tante (questo è il senso che io do al loro essere ex nazisti), che non credevano più alla felicità, ma solo alla serenità. E non si muore , per la serenità. Si sopravvive. Il segreto di questo ragazzo divenne così ingombrante da fare ombra al ragazzo stesso. Che si ritirò dalla vita, pur di non confessarlo, e piombò in un cupo silenzio. Questo fatto spezzò il cuore della fidanzatina. E anche della madre. Il padre si buttò nel lavoro, per non pensare più al segreto del figlio. E quando un suo collega rivale fu sul punto di dirgli che il segreto lui lo conosceva, il Padre decise di non volerlo sapere, in questo modo privando anche il pubblico del piacere ( ammesso che piacere sia ) della rivelazione. Ma poco tempo dopo, durante una festa, quando sembrava che le cose fossero ormai avviate verso la Serenità della rimozione, un contadino venne a rivelarci la verità. La disse solo a noi . I genitori non la vollero sapere. Fine. La suspance per noi è finita. Per i genitori e per Ida, no. Non sapranno mai più nulla del loro amato figlio, scomparso per sempre non si sa dove, e non si sa perché.
Alla fine di ogni scena c’è musica. Il tema della musica di scena deve essere il tempo che passa, e che ci rende tutti meritevoli di perdono.
Anche dentro alle scena ci sarà musica. La musica sarà portatrice del tuo solito effetto magico : quel che vedete sta accadendo ma è già accaduto. È qui e ora, ma è anche nel tempo. È nostalgia e dramma insieme.
Per ora non ho molto altro da aggiungere.
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